Morso e rimorso

ultima

Caino camminava avanti e indietro, grattandosi senza sosta la fronte.

Avanti…

In un salotto vittoriano, meno sfarzoso e ipocrita di tanti altri. Seduto a un tavolo un uomo barbuto e brizzolato, intento a tagliuzzare del sedano come fosse una succulenta bistecca. Solleva lo sguardo, sotto le sopracciglia cespugliose da vero irlandese.
“Amico mio, non resisto mai alle tentazioni. Perché ho scoperto che le cose che non mi fanno male non mi tentano.”

Indietro…

Un uomo ancora più barbuto e più scuro. Di carnagione almeno, se non di peluria. Sta dettando a uno scrivano, alle prese con un riottoso papiro. La stanza di pietra non basta a stemperare il calore africano.

Caino sospira, a disagio in presenza di un santo. Eppure attende in silenzio.
“Prego sempre: mio Dio, rendimi immune a ogni tentazione. Ma, per favore, non adesso.”

Avanti, con giusto un’occhiata fugace all’incarto sul comodino…

Il giovane è stravaccato su un divano di pelle, al ripario in una roulotte. Fa più fresco adesso, eppure lui se ne sta a torso nudo, con una collanina di perle intorno al collo, la criniera di che gli ricade mossa sulle spalle bianche. Non ci vuole nulla a immaginarlo con la barba, anche se la somiglianza con il Messia in persona mette paura. Si stiracchia come una lucertola, prima di schiudere tra le labbra una voce di velluto.
“Ascolta… La perenne tentazione della vita è quella di confondere i sogni con la realtà.”

No, troppo avanti, troppo.
Poi tornando indietro bisogna fare i conti con l’odore di zucchero nell’aria…

Non sta bene intrufolarsi nel budoir di una giovane donna, figuriamoci di un’imperatrice. Ma Caino è disperato e ha bisogno di consigli all’altezza. In effetti è difficile a dirsi se lei sia più bella o più disperata, lì, nel bel mezzo del massimo sfarzo austroungarico. Ci scriveranno dei libri e gireranno dei film, sicuro come l’oro. Lei intanto compone poesie.
“Dolce anima. L’ora della tentazione è suonata / E vile come un cane sono tornata.”

Basta, basta! Avanti, solo un poco. Senza pensare alla frittella in attesa.

Un colossale gentiluomo con la grazia e lo spirito di una vespa. Bizzarra creatura da bestiario, non c’è che dire. L’aria è quella di Londra, ma tutto è un cerchio e il cuore che batte è di nuovo irlandese. Il padrone di casa poggia una mano, pesante e delicata a un tempo, sulla spalla di Caino. E’ l’unico con l’ardire di toccarlo.
“Credimi, l’unico modo di sbarazzarsi di una tentazione è cedervi.”

Di nuovo avanti, chiudendo occhi, naso e orecchie.
Ebbe l’impressione d’intravedere un vecchio gentile, con un abito impeccabile e le mani incrociate sull’impugnatura del bastone da passeggio. Sussurrava parole inafferrabili, capaci solo di lasciarsi dietro un accento latino. Poi Caino tornò.

Nel suo letto. Per quanto possa essere tuo il letto di una stanza in affitto. Seduto sul materasso, sfilò appena la frittella dall’incarto, assaporandone lo scricchiolio.
Restava solo una cosa da fare a questo punto.

Rivide Abele, come aveva sempre desiderato. E temuto. E sperato. E negato.
Sorrideva tra il felice e il confuso.
“Tu hai ucciso me, o io ho ucciso te? Non ricordo più.”
Teneva i palmi rivolti verso di lui, forse sul punto di tendergli una mano.
Caino si sfiorò la fronte con due dita.

Era solo nella stanza, la faccia tra le mani. Quasi sicuro di non averla mai lasciata.
Non aveva il coraggio di far filtrare uno sguardo per vedere se aveva davvero ceduto alla tentazione. Invece permise a un sussurro di scivolargli in mezzo alle dita.
“Ho già morso. Ho già rimorso. Quello non si consuma mai.”
Inspirò, raddrizzando la schiena.
“Mi tengo la colpa. Mi tengo la storia. La nostra, fratello.”
D’improvviso ghignò.
“E fanculo al perdono.”

Categorie: Gola - Le frittelle di Caino

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