L’ultimo pasto

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Il sole a scacchi non è gentile, soprattutto con chi non conosce le regole del gioco. Forse qualcuno avrebbe detto che il nuovo arrivato aveva una faccia da criminale, ma bastava guardarlo per capire che non era abituato a stare in gabbia. Avanti e indietro, indietro e avanti, sembrava che ci volesse scavare i solchi sul pavimento della cella. L’avevano condannato a cavalcare il fulmine, reo confesso, e non vedeva l’ora di montare in sella. Lo ripetevano le guardie, quando le guardava male da dietro le sbarre; lo sussurravano gli altri detenuti, ridendoci su senza capire. Un tipo strano.
Gli piaceva lavorare in mensa, se glielo lasciavano fare. Era l’unica occasione per scambiarci due parole, due di numero, ma sempre meglio di niente. La gente va matta per gli enigmi, c’è poco da fare: più una cosa sembra inaccessibile e più moscerini curiosi ci ronzeranno intorno. Così in tutta la prigione avevano cominciato a scommettere sull’ultimo pasto del reo-confesso-condannato-a-morte-della-mensa.
Avrebbe chiesto qualcosa di esotico? Raffinato, magari? Roba da ricchi, come caviale o aragosta? In effetti, però, non aveva l’aria del marinaretto. Il pesce non piace a tutti.
Forse era un nostalgico, di quelli che chiedono il piatto forte della loro madre. E poi si lamentano che non è lo stesso. Avrebbe chiesto un obbrobioso stufato? Il polpettone è sempre un grande classico. Una puntata sicura, per essere una scommessa.
Invece si aggiudicarono la posta quelli che avevano scelto l’orgoglio. Quando le guardie gli domandarono cosa volesse, rispose che era a posto così. Rifiutò anche il prete, per ribadire il punto. Era davvero ansioso di percorrere l’ultimo miglio.
Così lo fecero uscire, una guardia davanti e due dietro.
“Uomo morto che cammina!”
A metà strada il detenuto rallentò. Qualcuno accennò a posargli una mano sulla spalla.
“Non mi toccare.”
A cosa vale stare a discutere con un uomo già morto? Le guardie gli lasciarono un po’ più di spazio, come ultimo desiderio. Fu allora che la luce al neon del corridoio sfarfallò, solo per un attimo. Il detenuto non c’era più, svanito insieme al ronzio delle lampade.
Scoppiò il caos, cominciarono a cercarlo dappertutto, ma una prigione non è come un divano dove puoi sempre guardare sotto le gambe o ribaltare i cucini. Si vede subito tutto quello che c’è da vedere e lui non si vedeva più. Puff. Andato.
Mentre aprivano e chiudevano celle, nel frastuono del metallo contro il metallo, le guardie non si accorsero nemmeno di un altro dettaglio, meno che un indizio e più di una coincidenza: tutti quelli che avevano scommesso che il detenuto non avrebbe chiesto nulla per il suo ultimo pasto, avevano gli angoli della bocca sporchi di zucchero. E sorridevano, dal primo all’ultimo, con l’aria di chi la sa lunga.

Categorie: Gola - Le frittelle di Caino

2 commenti

    • Oscar

      Ciao Diamante, raccoglierei volentieri il tuo grido disperato, ma purtroppo indicare il senso di una storia è triste come spiegare una barzelletta 😉

      Se puoi pazientare fino a giovedì, cercherò di metterci una pezza con il solito articolo di approfondimento.
      Già così ho pronta la bandiera bianca, se non ci riesco neanche allora, tiro fuori anche la croce rossa e ti resta comunque il diritto di spararmi addosso, eheh.

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