Via della surrealtà
Caino lavorava alacremente nella piccola cucina, masticando imprecazioni tra i denti per i fornelli capricciosi e la lampadina troppo fioca. Doveva essere notte ormai, anche se le tende spesse che coprivano le finestre avevano già fatto calare l’oscurità da un pezzo. D’un tratto si udì un ticchettio sul vetro, nella stanza accanto, e il cuoco sgranocchiò il nome del suo apprendista. Rumore di passi pesanti, avanti e indietro, intervallato dal sibilo dell’imposta sollevata, poi il Gobbo di Notre Dame si avvicinò al tavolo per l’impasto con una caraffa piena di zucchero a velo.
“Il funambolo ha fatto la sua parte.”
Caino gli strappò la brocca di mano, annusò il contenuto e annuì.
“Com’è la situazione là fuori?”
“Dice che le squadre antisommossa presidiano la piazza. La via è sgombra, però.”
Il primo assassino fece un sorriso feroce e Quasimodo, suo malgrado, balzò indietro. Sapeva di non doverlo irritare mentre preparava le frittelle.
“Hai ragione, capo, il funambolo è nel taschino del commissario. Meglio aspettare la telefonata di Ofelia.”
Caino lo scacciò con un cenno e il Gobbo si trascinò nell’altra stanza. Rimasto solo con la ricetta, il cuoco decise che le frittelle non erano ancora del colore giusto, quello dei semafori nell’istante esatto in cui passano da verde ad arancione. Il tempo stringeva, lo zucchero fremeva e così le sue mani, ma ci voleva pazienza. Tra centoventi, centotrenta bolle di sapone esplose al massimo sarebbe stato tutto pronto.
Lo squillo del telefono lo colse di sorpresa, rischiando di fargli rovesciare l’olio. Decise che aveva bisogno di un momento di riposo e andò a rispondere in salotto.
“Che notizie, Ofelia?”
“Piovono cani e gatti.”
“Parlami dei cani.”
“Il Buon Samaritano è nell’appartamento di fronte, ma non l’ho mai visto affacciarsi. Sembrerebbe solo una coincidenza. Si prepara per la grande festa.”
Caino tirò su con il naso: mai fidarsi di gente del genere. A quel punto, però, tanto valeva preoccuparsi della sindrome influenzale o dell’anticiclone delle Azzorre.
“Dimmi dei gatti.”
“Romeo si è fatto beccare dagli agenti. Sempre a fare il filo a Cenerentola, nel bel mezzo della strada. Non poteva che finire così.”
Il cuoco si guardò le dita sporche di farina, mentre sentiva la voce di Ofelia grondare disprezzo e forse una punta d’invidia. La vergine di ferro e la sgualdrina matricolata, difficile credere che una volta fossero amiche per la pelle.
“La via di fuga viaggia in orario?”
“Sì. E le frittelle?”
Riattaccò la cornetta, per correre subito al forno. Le cose si mettevano bene, doveva solo stare attento a non sbagliare con lo zucchero. Delicato, come il movimento ondulatorio sussultorio. Ecco fatto.
“Quasimodo, aiutami a incartare!”
Mentre litigavano con il rotolo, il campanile batté dodici rintocchi, ma per fortuna se ne rimangiò uno. O almeno mezzo. Si guardarono perplessi, il Gobbo e l’assassino, poi ricominciarono a darsi da fare. Preparavano le sporte.
“Venghino signori venghino! Il circo è in città e il Carnevale pure! Venite ad assistere all’esecuzione di Monsieur Casanova.”
Quasimodo poteva caricarsi le borse sulla gobba da solo, Caino doveva vedere. Scostò la tenda e riconobbe sul grande carro allegorico una tavola imbandita, con il Fantasma dell’Opera che alternava il megafono e il cucchiaio per imboccare un damerino italiano oscenamente obeso. Le guance gonfie minacciavano di esplodere da sotto la parrucca.
“Che succede, capo?”
“Niente che ci riguardi. Andiamo.”
Si precipitarono nell’altra stanza, l’assassino aprì la finestra e il Gobbo balzò sulla corda del funambolo, fradicia di pioggia e tesa all’ombra dell’arcobaleno di Noé.
“Mi raccomando, resta nascosto dietro l’indaco. Non se lo ricorda mai nessuno.”
“Va bene. Sicuro di non voler venire anche tu?”
Caino scosse la testa.
“Non ho nemmeno preso il biglietto. Fai buon viaggio sul Titanic. E consegnale tutte.”
Quasimodo fece un saluto, al limite del militare, e se ne andò con le frittelle in equilibrio sulla città.
Il cuoco, esausto, si spaparanzò sul divano, meditando se chiamare Ofelia oppure no.
In quel momento bussarono alla porta. Sapeva che era stupido rischiare di farsi vedere con il corteo in pieno svolgimento, ma andò comunque ad aprire.
Sulla soglia c’era un piccoletto con i baffi, la lingua di fuori e una criniera di capelli bianchi che strabordava dal cappello verde a punta, afflosciato sotto la pioggia battente. Sporgendosi in un inchino, rovesciò tutte le frecce fuori dalla faretra.
Caino lo aiutò a raccoglierle e per ringraziarlo l’ometto gli spinse una busta tra le mani.
“Che scherzo è questo, dottor Einstein?”
Il piccoletto arrotolò la lingua, quindi riprese a trottare nella scia del carro allegorico.
Caino si girò la lettera tra le mani, lesse “Abele” nello spazio per il mittente e la lasciò cadere subito a terra, nemmeno fosse la scheggia affilata di uno specchio che riflette solo brutti presentimenti.
Un istante dopo nell’appartamento non c’era più nessuno, solo una busta chiusa sulla porta aperta, tra i coriandoli, la pioggia e gli agenti schierati in tenuta antisommossa.
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