giuseppegioacchinobelli

Sonetti romaneschi – Volume I

CAINO

Nun difenno Caino io, sor dottore,
Ché lo so ppiú dde voi chi ffu Ccaino:
Dico pe ddí che cquarche vvorta er vino
Pò accecà l’omo e sbarattajje er core.

Capisch’io puro che agguantà un tortore [1]
E accoppacce un fratello piccinino,
Pare una bbonagrazia da bburrino,
Un carciofarzo [2] de cattiv’odore.

Ma cquer vede ch’Iddio sempre ar zu’ mèle
E a le su’ rape je sputava addosso,
E nnò ar latte e a le pecore d’Abbele,

A un omo com’e nnoi de carne e dd’osso
Aveva assai da inacidijje er fele:
E allora, amico mio, tajja ch’è rosso. [3]

Giuseppe Gioacchino Belli – Terni, 6 ottobre 1831 – D’er medemo

[1] Pezzo di ramo di albero.
[2] Calcio falso: tradimento.
[3] Frase usata per esprimere l’abbandono di ogni riguardo od esitazione.
È metafora presa dal tagliare i cocomeri.

Categorie: Superbia - Le citazioni su Caino

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