Il premio di Romolo
Caino aveva bisogno di fare una passeggiata, per allontanarsi dalla folla e dal rumore. Non cercava il silenzio, tutto e subito, ma l’esatta sensazione di riuscire a seminare quello che lo infastidiva. Forse per questo il marchio l’aveva catapultato a Roma.
Al contrario di chiunque altro, mentre camminava dalla periferia verso il centro storico sentiva il traffico affievolirsi e i turisti svanire. Attraversò a un semaforo, e la strada passò dal cemento ai sanpietrini. Risalì una rampa di scale, e i palazzi si spogliarono di vetro e cemento per rivestirsi di marmo. Al suo passaggio le rovine tornavano a ergersi orgogliose, ma quando se le lasciava alle spalle non restavano altro che prati.
Anche se aveva un cerchio alla testa, a forza di ricacciare indietro il tempo, quella bizzarra passeggiata serviva a tenerlo occupato, impedendogli di rimuginare. Continuò a funzionare finché si fermò davanti a un piccolo albero sulla sommità di una collina.
Tra le foglie spuntavano sia fiori gialli, sia frutti rossi corallo, alla faccia dell’alternarsi della stagioni. Il piccolo albero era eterno, come la grande città.
“L’ho piantato io. Era la mia asta, l’ho scagliata fin qui dall’Aventino.”
Caino voltò la testa e vide un uomo con una pelliccia di lupo gettata intorno alle spalle. Sorrideva come se fosse il padrone del mondo.
“La tua asta, eh?”
“Sì, nessuno ha mai lanciato più lontano. Nemmeno Remo che era identico a me.”
Il primo assassino annuì.
“Tu sei il Re di Roma.”
“Suona meglio di Remora, non credi?”
E rise, forte, spavaldo. Caino digrignò i denti.
“Anch’io ho fondato una città. Enoch.”
“Mai sentita. E non si dimentica un nome così brutto.”
“Era il nome di mio figlio.”
“Be’, tanto valeva che lo chiamassi Remora allora!”
La risata esplose di nuovo, le fauci del primo assassino scricchiolarono.
Stavolta Romolo sembrò accorgersene perché si affrettò a ricomporsi.
“Ti chiedo scusa. Tra pari deve esserci rispetto.”
“Io non sono Re.”
“Com’è possibile? Hai detto di aver fondato una città.”
Invece di rispondere, Caino si accostò all’albero e appoggiò il palmo aperto al tronco. I frutti tornarono a essere fiori, i petali si richiusero in boccioli, le foglie svanirono nei rami e infine non rimase altro che un’asta di legno.
Anche l’uomo di fronte a lui era cambiato: sembrava meno vigoroso, meno sicuro di sé. In una parola, più giovane. Guardò il primo assassino con gli occhi sgranati e la sua voce tremò un poco mentre si rivolgeva a lui.
“Chi sei?”
“Ho fondato Enoch. Ho ammazzato mio fratello. E in cambio non ho avuto una corona dagli dèi, né l’esultanza degli uomini. Sono stato rinnegato, maledetto, scacciato e perseguitato. Fino alla fine dei tempi.”
A ogni parola la sua ombra si faceva più cupa, il suo portamento più minaccioso, gli occhi più ficcanti. Romolo distolse lo sguardo, sollevando una mano per proteggersi.
“Io non ti conosco! Non è stata colpa mia!”
Caino si sgonfiò in un istante e sorrise.
“Hai ragione.”
Lasciò che il giovane tirasse un sospiro di sollievo. Poi strappò l’asta dalla terra e gliela fracassò sulla testa, facendolo crollare ai propri piedi.
Aveva ancora i muscoli gonfi e il fiato corto, quando fissò il moncherino del bastone e scoppiò a ridere, così forte da far risuonare tutto il Palatino.
“La spada di Caino!”
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