Jazz
Non si può sopportare il motivetto di “Tanti auguri a te” troppo a lungo. Ne va della propria sanità mentale. Caino sperava di essersi fermato appena in tempo, ma anche così aveva bisogno di qualcosa per lavare via l’eco dei festeggiamenti. Gin e rumore, non c’è cura migliore… Soprattutto quando ti rendi conto di aver iniziato a pensare in rima.
Non appena spuntò dai bagni per gentiluomini della Roseland Ballroom, si affrettò ad accaparrarsi una delle sedie ai margini della pista. Più che del ballerino, la sua vocazione era sempre stata quella della tappezzeria. Gli piaceva starsene a guardare la gente piroettare e scontrarsi su quell’enorme tavolo da biliardo, liscio e illuminato. Trovava una certa fierezza nel ruolo della palla numero 8, la nera che tutti si affannano a evitare prima della fine della partita. Tutti, tranne la musica.
Ogni squillo degli ottoni gli vibrava forte e chiaro nelle orecchie, sospinto da tre trombe, tre tromboni, due sax soprani e due tenori. Quella sì che era una Big Band! Quello sì che era jazz!
Del resto Caino aveva giocato sul velluto, infilandosi negli Anni Quaranta alla corte di sua maestà Louis Armstrong. Clown e leone, divoratore di microfoni e giocoliere con la tromba: qualsiasi cosa facesse, i piedi di chi lo ascoltava non potevano resistere. Persino quelli di Caino battevano il ritmo, senza fretta, da seduti. E fu proprio la flemma a dargliela vinta, perché più le ore passavano e più il delirium tremens dei ballerini andava scemando. A poco a poco la pista cominciò a svuotarsi, mentre la musica si faceva dolce e sommessa, accompagnando gli ascoltatori verso il guardaroba e dando loro il bacio della buonanotte. Finché l’atmosfera si fece abbastanza intima per l’ultimo bis. Il grande Satchmo non ebbe nemmeno il tempo di chiedere quale canzone i signori gradissero che l’uomo rimasto seduto tutta la sera nel suo angolo si alzò, sovrastando con voce stentorea le ultime braci di chiasso: “Cain and Abel”.
Non era un bis. Non era il pezzo più ballabile, né il più celebre del repertorio. Eppure il batterista scandì il tempo e la band cominciò a suonare, con il basso e i cimbali finalmente alla ribalta. Dal canto suo Louis Armstrong indossò i panni del predicatore e d’improvvisò sembrò fare più caldo. Tutta colpa delle note aggressive di quel sermone in chiave minore. Consapevole che un paio di minuti bastavano e avanzavano per avere gli ultimi superstiti della sala in proprio potere, Satchmo cantò l’ultima strofa per invitarli a imparare la lezione da Caino e Abele, quindi la sua tromba cominciò a pregare. Alla fine ci fu uno scroscio di applausi. Nemmeno la metà di quelli che avrebbe meritato.
Senza farsene un cruccio, la band cominciò a riporre gli strumenti, ma, mentre le chiusure delle custodie stavano ancora scattando, si avvicinò al palco l’uomo dell’ultima canzone. Volle stringere la mano a tutti, lasciando Louis e la sua grande bocca sorridente per ultimi.
“Strana richiesta la tua, amico. Non ce la chiedono spesso.”
“Sono un ammiratore di vecchia data.”
“In effetti non hai l’aria di uno della Grande Mela. Chicago?”
Caino fece cenno al musicista di avvicinarsi e gli sussurrò in confidenza.
“New Orleans. Ti seguo da sempre, dai tempi della banda del riformatorio. Ti seguo da abbastanza tempo per sapere che quando canti di non risentirsi per quanto ci manda il Signore… Be’, stai cercando di convincere soprattutto te stesso.”
Il largo sorriso di Satchmo rimase di sasso e quelle parole gli restarono attaccate addosso fin nei camerini. Il resto della band se n’era già andato, quando la donna delle pulizie bussò alla porte e gli porse un cestino di vimini.
“L’abbiamo trovato sotto una sedia.”
Un’etichetta penzolava dal manico: “Per Mr. Armstrong. Buon appetito”.
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