I gemelli di Macha
La caffetteria dell’università dell’Ulster stava per chiudere ormai. Restava un solo tavolo occupato, da un ricercatore occhialuto e la sua tazza di te’. Aveva letto e bevuto, bevuto e letto per ore, dividendosi tra gli appunti e la teiera che sembrava non esaurirsi mai, come un pozzo di San Patrizio in miniatura. La prosaica verità, però, era che non si era mai accorto della cameriera che la sostituiva di continuo. Così come non si accorse dell’uomo che prese posto davanti a lui.
“C.A.IN., eh?”
Il ricercatore sollevò lo sguardo dai fogli con aria stupita. Improvvisò un sorriso che gli ridistribuì le lentiggini sul viso e annuì.
“Sì, sono il responsabile del progetto. Sei…”
No, non aveva l’aria dello studente, nemmeno di un bizzarro fuoricorso. Forse un professore straniero in visita? Prima che potesse chiederlo, l’uomo gli sfilò gli appunti da sotto il naso per esaminarli.
“Bella lista di guerre e massacri.”
“E’ un po’ più elaborato di così.”
Lo sconosciuto inarcò le sopracciglia, sfidandolo ad argomentare. Un istante dopo, però, accantonò la questione con un cenno della mano.
“Non voglio discutere. Voi in Irlanda avete avuto la vostra parte di guerre.”
“Già.”
Il ricercatore si appoggiò allo schienale della sedia. Per alcune famiglie quelle dei Tumulti erano ferite ancora aperte, tutt’altro che storia da catalogare in un archivio.
“Macha ha lanciato la sua maledizione non lontano da qui, dico bene?”
“Prego?”
“Macha. I gemelli di Macha.”
Il giovane impiegò qualche istante a capire il riferimento, passando dalla storia contemporanea dell’Irlanda del Nord all’antichità del mito.
“Ah sì, certo, il sito di Emain Macha. E’ dalle parti di Armagh.”
“Com’era la storia dei gemelli?”
Non era una vera domanda. Quell’uomo conosceva la leggenda, ma voleva comunque che gliela raccontasse. Proprio come faceva lui da bambino con il nonno, fingendo di non ricordare per farsi ripetere sempre le stesse storie.
La cameriera aveva cominciato ad aggirarsi intorno al tavolo a passi lenti: non voleva disturbarli, ma doveva chiudere. E al ricercatore il modo più veloce per farla finita sembrò raccontare. Così almeno faceva suo nonno.
“Re Conor del Clan Ulaid era un uomo orgoglioso e il marito della povera Macha era uno sbruffone peggio di lui. Così, quando Conor lo sentì vantarsi che sua moglie sarebbe stata più veloce nella corsa della preziosa coppia di cavalli iberici del Re, volle fargliela pagare. Minacciò Macha di uccidere il marito, se non avesse corso contro il suo carro. Non importava che lei fosse incinta, era questione tra palloni gonfiati. Lei corse e vinse, finendo per partorire alla fine della corsa. Straziata dal dolore, si dice che diede al mondo due gemelli, insieme a una maledizione e a una benedizione per il Re. Avrebbe avuto gloria e potenza, ma nel momento del bisogno tutti gli uomini del Clan avrebbero sofferto i dolori del parto, venendogli meno.”
L’aveva fatta breve. Quando la raccontava suo nonno, sembrava gustarsi ogni parola, ma in fondo gli sembrò di non essere andato troppo male. E poi di cosa si preoccupava? Non era certo un colloquio o…
“Grazie.”
Lo straniero catturò il suo sguardo, prima di continuare.
“Un fratello che passa per buono. E uno per cattivo. Alla fine non è forse questa la radice di tutte le guerre?”
Suo malgrado il ricercatore riconobbe con se stesso che alla sua storia mancava una chiusa come quella. Imbarazzato, si voltò per controllare la posizione della cameriera. Quando tornò a guardare di fronte a sé, era di nuovo solo.
Si alzò di scatto, cercando con lo sguardo lo sconosciuto.
Ora la cameriera puntava dritta nella sua direzione, perciò raccolse in fretta e furia gli appunti per poi prendere la porta. Incrociandola, non ebbe il cuore di chiederle se anche lei avesse visto qualcuno. Se c’era una cosa che aveva imparato da un nonno cantastorie, è che una buona storia non ha bisogno di essere reale per avere un valore.
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